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Archive for the ‘Computer e Internet’ Category

Mentre Facebook lancia nuovi bottoni per far circolare i contenuti online ,Google annuncia la fine del periodo a inviti e apre a tutti (o meglio a chi ne abbia voglia) il suo Google+. Il social network di Big G inoltre punta pesantamente sulle funzioni di videochat, anzi sui videoincontri come li chiamano loro (a me fa tanto chat erotica… “Videoincontrami, mmmm”). Le novità sono presentate sul blog ufficiale di Google, che elenca i 100 miglioramentiche la piattaforma social ha implementato dal giorno zero a oggi.

Vediamo se stavolta, con l’apertura a tutti, Google riuscirà a ritagliarsi un posto alla ricca tavola dei social network. Nel mio piccolo, a fronte di pochi amici entusiasti di “guglplas” e parecchio attivi, ho una pletora di conoscenti che lo snobbano del tutto oppure si sono iscritti ma non condividono nulla. In compenso la mia Gmail è spammata quotidianamente da  sconosciuti che mi hanno aggiunto alle loro “Cerchie” (devo decidermi a togliere l’alert). E condividere un album di foto Picasa con poche persone scelte è diventato molto più complicato dell’era pre-Plus. Di certo, rispetto a Facebook, Google+ è meno intuitivo anche se più versatile. Temo che il fattore usabilità possa rivelarsi decisivo, ma il volume di fuoco messo in campo da Mountain View, anche e soprattutto sul fronte smartphone (videoincontri su piattaforma Android e a breve anche iOs), è notevole.

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Per mantenere il proprio ruolo di leader indiscusso non solo come social network, ma anche come piattaforma di veicolazione di contenuti online. Dal New York Times a Tech Crunch, i rumors sono molti e dovrebbero essere confermati durante l’F8 Developer Conference. Oltre al servizio rumoreggiato di musica online – con Spotify e Rapsody –, l’idea di Palo Alto sarebbe quella di creare nuovi strumenti di condivisione di contenuti tra gli utenti. Non solo di quelli personali, ma anche di spettacoli televisivi, film, libri e canzoni. Magari con piccoli assaggi per poi passare a una qualche forma di acquisto.

 

Le modalità, come gli eventuali accordi sui diritti, sono ancora da capire. In ogni caso la nuova idea di Facebook sarebbe quella di invitare gli utenti a far girare tra gli amici i propri contenuti preferiti, arrivando così a creare un incredibile circolo virtuoso (soprattutto per chi produce i contenuti) di diffusione di consigli tra i 750 milioni di facebookers. Con la relativa ricchezza di dati puntuali sui gusti personali di ognuno. Tutto il sistema dovrebbe girare attorno all’esplosione dei bottoni in stile “Like”. Su FB, accanto al “Mi piace”, dovrebbero dunque comparire tasti come “Read” (Letto), “Listened” (Ascoltato), “Watched” (Visto) per segnalare e consigliare agli amici non solo notizie (o libri), ma anche il film o la canzone che ci sono piaciuti.

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Con l’aggiornamento dell’algoritmo di ricerca denominato Panda Update, Google dichiara ufficialmente guerra alle Content Farm, cercando di dare minor peso ai loro contenuti nei risultati di ricerca e dare un vantaggio ai veri produttori di contenuti originali.
Per chi non sapesse cos’è una Content Farm, si può dire sia una sorta di aggregatore di notizie che aggiunge poco o nulla di nuovo alle informazioni della fonte originale e che punta molto sulla quantità, spesso copiando i contenuti di altri siti. Come sappiamo, l’algoritmo di Google premia sicuramente gli aggiornamenti costanti e forse qualcuno ne ha abusato veramente troppo in passato, scalando i risultati di ricerca.

Chiunque abbia un blog od un sito, avrà notato che spesso e volentieri si viene superati nei risultati di ricerca da aggregatori che magari dal motore di ricerca vengono considerati siti con più autorità, magari soltanto perché risultano online da tanto tempo e dispongono di moltio contenuti, anche se magari di pessima qualità perchè “copiati” (anche se la maggior parte degli aggregatori riporta una parte degli articoli e poi rimanda al post originale mediante un link).

Ecco quindi tutti i siti con il traffico crollato dopo l’aggiornamento dell’algoritmo di google, si tratta di crolli a 2 cifre quasi sempre superiori al 50% che colpiscono molte content farm (fonte searchmetrics):

 

Ecco invece chi ha tratto beneficio dalle nuove ricerche di Google Panda guadagnando un bel po’ di visitatori in più a discapito delle content farm:

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Il consorzio raggiunge ormai l’85% dei fruitori italiani di news, per un totale di 126 testate 
Il  2010 si è chiuso con risultati di rilievo per il consorzio Premium Publisher Network (PPN) in termini sia di adesioni sia di volumi. Il consorzio, fondato nell’aprile 2009 da RCS Media Group e Gruppo Editoriale L’Espresso con l’obiettivo di offrire al mercato online posizionamenti pubblicitari testuali a performance, si è allargato progressivamente ai principali editori italiani. Nelle ultime settimane sono entrati nel consorzio l’Editoriale Domus  (tra le cui testate ci sono leader storiche nei propri settori quali Quattroruote, Ruote Classiche, Domus, Meridiani etc.) ed Eco, editore del quotidiano ambientale online Greenreport, punto di riferimento dell’industria eco-compatibile. In autunno, come già annunciato, s’erano aggiunti alla compagine Rai e Class Editori. I gruppi aderenti al PPN sono oggi 14 per un totale di 126 testate.
 
Nel corso dell’assemblea di consuntivo 2010, è stato annunciato che, con 13.370.000 utenti unici mensili (dati Audiweb, novembre 2010), il PPN raggiunge ormai oltre l’85% dei fruitori italiani di news online e più del 50% dell’audience totale, con 2,5 miliardi di adv impression al mese. Rispetto al 2009, le adv impression erogate sono cresciute del 102% e il fatturato ha avuto un incremento del 117%. Secondo Claudio Giua, presidente di PPN, e direttore dello Sviluppo e dell’Innovazione del Gruppo Espresso, “il trend di crescita del fatturato si sta confermando anche per l’anno in corso. Contiamo poi di aumentare il numero di campagne,

che sono state già più di mille nel 2010”.
 
L’esperienza del Premium Publisher Network dimostra che, per funzionare, il contextual advertising deve disporre di un’avanzata tecnologia di targetizzazione del mercato, di un modello di pianificazione che consenta investimenti per canali tematici e per parole chiave, di ampli bacini di utenza. In sintesi: audience premium qualificate con grandi volumi di traffico. Anche per questo motivo, come conferma il vicepresidente Giorgio Riva, direttore generale di RCS Digital, c’è la forte volontà “di coinvolgere nell’attività di PPN tutta l’editoria online italiana, allargando l’esperienza all’estero, dove è altissima l’attenzione nei confronti della nostra iniziativa”.
 
Le performance di PPN sono state ottenute con la collaborazione del partner tecnologico e commerciale 4w MarketPlace, che gestisce l’offerta pubblicitaria online. “I nostri clienti sono per il 70% costituti da big brand e per il 30% da medio/piccoli”, chiarisce Gabriele Ronchini, presidente di 4w MarketPlace. “A tutti offriamo un servizio mirato, completo e trasparente, raggiungendo i risultati prefissati e rinnovando puntualmente gli investimenti”.

Del Premium Publisher Network fanno parte: Ansa, Apcom, Athesis Editore, Class Editore, Editoriale Domus, Gruppo Editoriale L’Espresso, Finelco, RCS, Domenico Sanfilippo Editore, Editrice La Stampa, Eco srl, Nexta, Sie, Rai.

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 E’ la stessa rete a mettere alla prova i cyber-entusiasti con l’antidoto allo stress da web. Via le mani dalla tastiera

Ammettiamolo: quanto può essere snervante a volte navigare sul web? Che sia per lavoro o semplice passatempo trascorriamo ore e ore davanti allo schermo del pc; connessi ininterrottamente alla Rete, con l’indice premuto costantemente al tasto sinistro del mouse. E con il cervello concentrato sul susseguirsi rapido di notizie, dati e informazioni di ogni tipo. Ci vuole una dieta tecnologica dimagrante, o perlomeno un break. Bastano due minuti. Staccate e rilassatevi. Magari con le onde del mare in sottofondo e un tramonto mozzafiato per calmare gli occhi affaticati. Il rimedio si chiama «Do Nothing For 2 Minutes la pagina su Internet destinata ai workaholic 2.0.

 

OLTRE IL POSSIBILE – Non fate (assolutamente) nulla per 2 minuti. Impossibile? Certo, la prova non è semplice: la vita online è un palinsesto personale in continuo aggiornamento. Il sito creato da Alex Tew è banale, ma al contempo geniale: aprendo la pagina compare l’immagine di un tramonto sull’oceano ed il suono delle onde che si infrangono sulla riva. Una scritta invita il cyberentusiasta a distendersi e a non toccare il dispositivo tecnologico. Dunque: via le mani dalla tastiera, dal mouse, dallo scroll. Parte il cronometro. 120 secondi che, tuttavia, a molti utenti-dipendenti possono sembrare un’eternità. Qualsiasi azione azzererà immediatamente il conto alla rovescia e la scritta «fail» (prova fallita) apparirà sullo schermo. «Do Nothing For 2 Minutes» è una sorta di «spazio zen» online. In poche ore il sito è già stato visitato (e scambiato sui social network) centinaia di migliaia di volte.

IL RAGAZZO DA UN MILIONE DI PIXEL – Colui che si nasconde dietro questa idea bislacca non è uno sconosciuto, ma Alex Tew, oggi a capo della società PopJam, lo studente universitario britannico che qualche anno fa fece scalpore nella blogosfera con la sua pagina Million Dollar Homepage. Nel 2005 l’allora ventunenne di Cricklade, nel Wiltshire, aveva infatti raccolto in poco tempo centinaia di migliaia di dollari vendendo pixel, ovvero i puntini luminosi che compongono le immagini sullo schermo del computer. Una corbelleria che lo fece diventare ben presto milionario. Sul suo conto arrivò più di un milione di dollari dopo sole quattro settimane dal lancio. L’idea, incredibile e geniale, Alex racconta di averla avuta riflettendo sulla moltitudine di informazioni a cui gli utenti sono esposti a ogni ora del giorno e al potenziale pericolo che questo sovraccarico comporta per la nostra testa. In ogni caso, si legge nei commenti (entusiastici) di coloro che hanno sfidato il sito di Alex (anche il sottoscritto), «a volte bastano veramente solo due minuti per mettere un po’ di ordine al nostro “disco fisso biologico”, troppo spesso scombussolato da Internet».

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Compiendo ricerche su Google si  basate sul Cost-per-Action: l’inserzionista paga soltanto se l’utente acquista

Google sta per introdurre tra i propri canali AdWords i cosiddetti “Product Listing Ads“. Trattasi di piccole vetrine che, posizionate su Google durante le proprie ricerche online, mettono l’utente nelle condizioni di acquistare immediatamente il prodotto cercato. I prodotti che compariranno saranno quelli caricati sul Google Merchant Center ed i pagamenti saranno possibili tramite Google Checkout

Approfondimento :

Inevitabilmente, quindi, la sfida di Google ad eBay e similari diviene diretta: sebbene riprodotta sotto forma di advertising, la vetrina dei Product Listing Ads è in pratica un modo per avvicinare acquirente e venditore rendendo la vita difficile ai marketplace esistenti. Inserita a livello teorico come un annuncio pubblicitario, la lista dei prodotti è però in pratica un piccolo marketplace insinuatosi tra Ebay e potenziali clienti. Si rinnova quindi una vecchia sfida mai del tutto sopita , sfida nella quale Google ha però sempre sofferto la presenza ingombrante e storica del concorrente. Così è stato inizialmente con Google Base (ed oggi la concorrenza non si limita certo al solo eBay); così sarà presto con Skype (se sarà confermata l’acquisizione di Gizmo); così è già per Google Checkout, da sempre surclassato dal dominio di PayPal.

I nuovi annunci indicano all’utente una immagine del prodotto, il nome ed alcuni prezzi. Il pagamento non avviene in virtù del click sull’annuncio, ma soltanto in caso di acquisto. Per l’inserzionista, quindi, non c’è onere alcuno ed i guadagni di Google scattano soltanto nel momento in cui l’acquisto viene formalizzato. Facile, peraltro, tener traccia dell’intera filiera poiché Google controlla tanto gli account dell’acquirente, quanto quelli del venditore, quanto ancora quelli del sistema di pagamento.

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La Francia sposa la linea dura: provvedimento mirato per far pagare agli ‘Over the top’ il traffico generato

Google Tax

La “tassa Google’, la cui applicazione in Francia è stata rinviata su richiesta del governo, sarà ridefinita entro l’estate. Lo ha dichiarato Eric Besson, Ministro francese per l’Economia digitale, informando che Il governo ha ottenuto una proroga di sei mesi che consentirà una concertazione con i player di internet e la proposta di un provvedimento più adeguato

approfondimento:

il 22/11/2010 il Senato francese aveva votato la ‘famosa’ tassa sulla pubblicità online, già battezzata ‘Google Tax‘, una misura avanzata dalla Commissione Zelnik, incaricata dal governo di redigere un rapporto per migliorare l’offerta di beni culturali online e trovare formule più efficaci di retribuzione per chi produce contenuti.

La tassa, doveva scattare solo per quei siti che hanno un elevato numero di utenti, come, appunto, Google, ma anche Facebook, Microsoft e Yahoo, in modo da non pregiudicare le piccole iniziative del web. 

Questa tassa, si inscrive nella roadmap tracciata dalla commissione finanze per tassare la pubblicità su internet e potrebbe portare nelle casse dello Stato tra i 10 e i 20 milioni di euro all’anno, secondo il Rapporto Zelnik. Denaro che servirà a finanziare iniziative culturali e nuovi soluzioni a favore di un’offerta legale di musica e film sul web e a sostenere la battaglia contro la pirateria.

 La proposta è sostenuta dal presidente Nicolas Sarkozy, che ha già approvato alcune proposte avanzate dalla Commissione Zelnik, istituita lo scorso settembre dal ministro della Cultura, Frédéric Mitterrand, per migliorare l’offerta legale di musica e film su Internet ma anche trovare una soluzione per remunerare gli artisti.

“La tassa sulla pubblicità internet è la sola soluzione, tenendo conto che i principali rivenditori di spazi pubblicitari online, come Google, hanno sede al di fuori della Francia”, ha sottolineato il relatore della proposta  Philippe Marini.

 Google, naturalmente, ha già protestato contro l’eventualità di introdurre questo nuovo balzello: per Olivier Esper, direttore degli affari pubblici di Google France, bisognerebbe infatti privilegiare “soluzioni innovative a una logica della tassazione” che risponda a sua volta a una “logica di contrasto tra il mondo di internet e quello della cultura”.

Sulla stessa linea la reazione dell’ASIC, l’associazione dei player Web 2.0, che ha messo in luce i rischi dell’approvazione di una simile imposta: “Mentre la pubblicità rappresenta circa il 20% dei profitti delle piattaforme di eCommerce, essa rappresenta, per la stragrande maggioranza degli attori del web 2.0, dal 90 al 100% del fatturato…bisogna ricordare – sottolinea ASICche quasi tutti i modelli di business del web 2.0 hanno bisogno di almento 4-5 anni per diventare redditizi. Tassare delle start up – conclude l’associazione – significa rimandare di mesi e forse anche di anni il raggiungimento del punto di equilibrio finanziario. Eventualità che non è mai occorsa in nessun altro paese industrializzato”.

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Chissà come avrebbero affrontato Internet i cinici creativi di MadMen, serial di culto sui pubblicitari americani anni ’50. La Rete offre ai creatori di spot potenzialità ancora tutte da esplorare. Nonché una platea vasta come il World Wide Web a costi irrisori. I siti di social network, con milioni di utenti, sono il terreno più ambito. Non a caso un esperimento dei più interessanti è online da qualche giorno su Youtube: se cliccate questo link vi trovate davanti a un filmato concepito dalla francese Buzzman – agenzia specializzata in video virali e interattivi, al momento lo stesso indirizzo web rimada a una campagna pubblicitaria (furbi) – per la tedesca Tipp-Ex, l’azienda tedesca che dal 1959 produce il più classico degli “sbianchetti” professionali.

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Dopo un servizio del Wall Street Journal è pronta una class action contro la Apple.

L’accusa è di trasmettere informazioni personali a società di ricerca e pubblicitarie senza il consenso di chi le usa.«Hanno trasformato le nostre proprietà personali in mezzi per spiare le nostre attività online»: a sollevare la questione, portandola in tribunale, sono due gruppi separati di cittadini americani unitisi in un’azione legale collettiva contro le applicazioni spione e i loro sviluppatori, colpevoli di divulgare informazioni personali che permettono di identificare gli utenti.

IL BUSINESS DELLE APPLICAZIONI INDISCRETE – Trentacinque miliardi di dollari: questo è il giro d’affari galoppante delle applicazioni Web. Ma i protagonisti di questo business sembrano essere poco attenti alle norme sulla privacy. Come spiega Majed Nachawati, uno degli avvocati dei consumatori, alcune applicazioni per iPad e iPhone trasmetterebbero informazioni personali a società di ricerca e pubblicitarie senza il consenso degli utenti.

CLASS ACTION – E’ stato Jonathan Lalo, cittadino di Los Angeles, il primo firmatario della denuncia destinata a trasformarsi in class action e partita dal Distretto Nord della California: nel mirino della giustizia c’è Apple, ma vengono citati anche Pandora, The Weather Channel, Dictionary.com e Backflip, sviluppatore dell’applicazione Paper Toss. In tutti i casi l’accusa è esplicita: violazione della privacy degli utenti attraverso le più popolari e scaricate app, utility e giochi.

IL WALL STREET JOURNAL LO AVEVA DETTO – La questione era già esplosa il 17 dicembre, con un articolo del Wall Street Journal intitolato: “Your Apps Are Watching You” (le tue applicazioni ti stanno guardando). Secondo l’indagine del prestigioso quotidiano infatti tra le 101 applicazioni più popolari per iPhone e Android ben 56 trasmettono l’Id unico (unique device identification number) del telefono a terzi, 47 inoltrano la localizzazione del telefono e altre 5 diffondono informazioni sul sesso, l’età e altri dati appetibili, guardandosi bene dal chiedere alcun consenso.

PROFILAZIONE DELL’UTENTE – Le terze parti in questione, alle quali viene inoltrata con disinvoltura la mole di dati, sarebbero società di comunicazione e aziende pubblicitarie e le applicazioni considerate meno discrete sono TextPlus (popolare applicazione iPhone per inviare messaggini gratis), Pandora (applicazione per l’ascolto di musica per Android e iPhone), il gioco PaperToss e il social network per iPhone dedicato alla comunità gay Grindr. Sia Apple che Google hanno risposto in maniera evasiva alle accuse del Wall Street, sminuendo il problema e ipotizzando una svista, ma ben 45 delle 101 applicazioni prese in esame non propongono una policy né sul sito del produttore né nell’applicazione. Dietro c’è il solito problema del tracking online, vero business dei giorni nostri alla rincorsa della profilazione dell’utente, anche se Apple continua a sostenere l’anonimato dei dati raccolti. Ora Jonathan Lalo e gli altri firmatari chiedono, oltre il risarcimento danni, la cancellazione delle informazioni registrate e la fine del tracciamento dei dati personali. A meno che non ci sia esplicito consenso, si intende.

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Un obolo per Wikipedia. L’enciclopedia online più famosa al mondo chiama nuovamente a raccolta gli utenti
della rete: servono soldi per «sostenere e proteggere» il suo lavoro. A scendere in campo è stato proprio il
fondatore Jimmy Wales, con una lettera aperta visibile attraverso un link nell’homepage del sito. Il tetto da
raggiungere, secondo indiscrezioni in rete, sarebbe di 16 milioni di dollari, esattamente il doppio rispetto a
quelli raccolti lo scorso anno. L’inflazione, si sa, galoppa. Avendo scartato ormai da tempo l’opzione di
accogliere banner pubblicitari, è infatti necessaria una «colletta» per coprire i 20,4 milioni totali per la gestione
del sito. Il 50% del totale servirà per il solo aspetto tecnologico, server e quant’altro, di quello che è ormai il
quinto sito al mondo e che conta 380 milioni di utenti al mese, cioè praticamente un navigatore su tre.

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